ROMA, 11. 01. 2013- (Al. Br.)- E’ una fredda serata romana e in via della Colonna Antonina davanti al Ristorante 9NINE a due passi da Montecitorio c’è un certo movimento. Al di là della locandina messa davanti all’entrata capisci che si parla di pugilato quando vedi entrare personaggi noti agli appassionati come Giulio Spagnoli, Roberto Sabbatini, Mario Mattioli, Mauro Betti e qualche volto ricorrente del nostro boxing. Si salgono le scale per andare in una sala interna attrezzata per la presentazione di un libro che parla di Carlos Monzon ed ha come sottotitolo “Il professionista della violenza”- Absolutely Free Editore. La sala ben presto si riempie e al tavolo dei relatori ci sono i due autori: Dario Torromeo e Riccardo Romani, giornalisti e scrittori di buona fama.
Un libro che va ad arricchire la biblioteca di chi compra per trattare un personaggio che ha fatto la storia del pugilato mondiale negli anni ’70, una testimonianza indelebile (a differenza di internet dove tutto appare e scompare come per magia), un libro di storia sportiva che va ad arricchire gli scaffali con le numerose biografie apparse in questi ultimi anni. E’ scritto a due mani, a due tastiere, da due giornalisti che si sono conosciuti circa 22 anni fa quando in Francia a bordo ring stavano assistendo ad un campionato d’Europa tra due pesi mosca, che se le stavano dando di santa ragione. Ad un certo punto Torromeo si rivolse a Romani chiedendo, incredulo e perplesso: “ Ma perché???”. I due da buoni inviati non si nascondono dietro un paravento: la boxe è uno sport violento, ma è una violenza che affascina incanalata da regole da seguire.
La violenza può essere definita con vari aggettivi: giustificabile, assurda, inconcepibile. Sul tema della violenza e su Carlos Monzon gli autori hanno imbastito un libro dove il bene e il male, il buono e il cattivo si rincorrono in una sorta di partita a scacchi. Monzon è il personaggio centrale, ma diventa anche il simbolo del concetto di violenza. Il libro è suddiviso in due parti: la carriera di pugile e il dopo. Gli autori rifuggono dal concetto di romanzo, anche se leggendo il libro forse per il tema trattato e per le caratteristiche del personaggio dà l’idea di un romanzo noir.
Gli appassionati di boxe hanno conosciuto Monzon il 7 novembre del 1970, lo hanno visto combattere e distruggere quello che per gli italiani era un mito, quel Nino Benvenuti, campione del mondo che aveva segnato profondamente la storia di questo sport quando il 17 aprile del 1967 andò in America e sconfisse Emile Griffith conquistando il titolo dei medi in un’epoca con una sola sigla, dove il campione era il più forte, il più bravo. Quando Monzon si presentò davanti agli oltre 15mila spettatori del Palasport dell’Eur era uno sconosciuto, il suo destro preceduto da un jab sinistro si abbattè come una mannaia su un Benvenuti quasi inerme alla 12ma ripresa, e l’argentino dopo quel colpo si diresse senza esitazione verso il suo angolo, sapeva di aver vinto. Molti piansero quella sera e per molti proprio in quella sera era nato un idolo. L’infanzia tremenda, incredibilmente povera, aveva forgiato il suo carattere, lo aveva indurito. La boxe lo aveva salvato, l’aveva reso ricco e famoso. Torromeo ci fa rivivere quel periodo dal 1970 al 1977 quando dopo 14 difese del titolo mondiale decise di ritirarsi, si può dire, imbattuto, da campione. Alla seconda ripresa il gancio destro di Rodrigo Valdes era arrivato a segno e Monzon era al tappeto, contato dall’arbitro. Il pubblico di Montecarlo non credeva ai propri occhi quell’indio, imbattibile e indistruttibile, stava ai piedi del suo avversario. Monzon si rialzò e vinse, ma quanta sofferenza. Tornato al suo camerino allo specchio vide un volto segnato dalla durezza del match, un volto sofferente, capì che era giunto il momento di dire basta. Torromeo ci fa conoscere in questo periodo anche l’altra faccia del campione: gli eccessi del fumo, del bere, le sue conquiste femminili da vero macho, nomi di attrici importanti come Ursula Andress e Nathalie Delon, la sua relazione con la bellissima Susanna Jimenez, i suoi matrimoni. Ma in prossimità di ogni match tutto svaniva e Monzon pensava solo ad allenarsi e come distruggere il suo avversario sul ring, un avversario che voleva rubargli anche la gloria e questo non lo sopportava. Dopo essersi ritirato arriva anche il suo declino, quella violenza istintiva fuori dal ring pian piano prendeva il sopravvento fino a portarlo all’omicidio della moglie Alicia Muniz, avvenuto dopo una notte di baldoria e per un litigio per futili motivi. Il lettore entra quindi nella seconda parte del libro, quella raccontata da Riccardo Romani, allora giovane giornalista freelance. Romani conosce bene l’Argentina dell’era Peroniana, della dittatura di governi che cadevano come birilli, della tremenda crisi economica che attanagliava quella Nazione. Intravede la possibilità di uno scoop sensazionale, l’intervista con il grande campione argentino, un monumento nazionale. La Gazzetta dello Sport pretende che l’intervista avvenga in esclusiva per il giornale. E’ un’impresa tutt’altro che facile, ma Romani dopo vari tentativi trova la carta buona per riuscirvi. Viene a scoprire, quasi accidentalmente, che Carlos Monzon ha una fidanzata segreta in Italia, a Milano. Si mette in contatto con la donna, rimasta vedova con due figli. La donna ha le sue conoscenze e gode soprattutto della fiducia illimitata di Monzon. Il giornalista tocca il settimo cielo quando ottiene l’intervista dentro il carcere di Santa Fè. Un’intervista che assume un valore particolare e che per certi versi ci fa conoscere un Monzon inedito. Ma il libro non finisce con l’intervista, perché dopo c’è un colpo di scena…proprio come un Noir.
Foto di Renata Romagnoli
Un gran bel libro e un saluto a Mario Romersi, un grande campione da ricordare